Riscopriamo La sessualità femminile in Sicilia fra trasgressione, mercificazione e violenza (secc. XII-XV), saggio di Patrizia Sardina, pubblicato nel 1999 dall’Archivio Storico Siracusano. Tratta delle siciliane nel Medioevo, dei loro “peccati”, del matrimonio come galera, soprattutto per quelle di sangue blu, e del concubinato come pratica diffusa contro le unioni sgradite. “Spesso le donne erano costrette a subire un marito che non amavano, ma al quale dovevano ubbidire anche sul piano sessuale”, così “la Chiesa, come garante del sacro vincolo coniugale, era tenuta a salvaguardare l’armonia e la durata del matrimonio, favorendo la riconciliazione all’interno della coppia anche in caso di ingiurie e maltrattamenti”. A quel tempo, l’annullamento delle promesse nuziali era concesso raramente, e solo in casi molto gravi: “Generalmente le malmaritate accettavano il proprio destino, rassegnandosi a vivere con un marito-padrone, che imponeva la propria volontà anche in campo sessuale”.
Esisteva un codice già dal XII secolo, il Canones poenitentiales, con cui la Chiesa era in grado di conoscere e controllare la vita sessuale delle coppie cristiane. All’interno, un vero e proprio manuale di domande per la confessione, rivolte in special modo alle donne. In primis la contraccezione, l’aborto e l’infanticidio erano considerati peccati di esclusiva pertinenza femminile: le mogli siciliane venivano castigate con tre anni di penitenza, le adultere invece ne subivano sette: niente comunione, niente partecipazione alla vita religiosa. Non solo, riferisce la studiosa: “Il canone analizzava casi anomali di fornicazione, rapporti incestuosi, l’accoppiamento tra le donne e i giumenti, comminando per il primo peccato da uno a tre anni di penitenza, a seconda se si fosse trattato di auto-erotismo o di omosessualità, per il secondo due anni, per il terzo una quaresima di penitenza a pane e acqua per sette anni”. E quando, tra il XIV e il XV secolo, certi manuali e trattati edificanti furono tradotti in volgare, uomini e donne di qualsiasi ceto furono sottoposti a confessioni molto dettagliate.
Nella Sicilia del tardo Medioevo, il prete si rivolgeva ai fedeli con esplicite domande, “chiedeva alle donne sposate particolari assai intimi, per appurare se i rapporti sessuali fossero avvenuti nei tempi leciti”. Quindi, prima di tutto, l’astinenza sessuale in tempi di Quaresima, feste liturgiche e durante il ciclo mestruale. Ecco l’“interrogatorio” a cui le donne maritate erano sottoposte: “Haichi consentuto contro natura, oi per dareri? Hai usatu standu tu supra?”, per sapere in che modo era avvenuto il rapporto sessuale; “Hai usatu lu matrimoniu per dariti spassu, e non per crixiri e multiplicari?”, per indagare sui peccati di lussuria; “Haiti toccatu li secreti?”, perché era illecita ogni forma di autoerotismo; “Hai desideratu alcuna persona? Hai ammustratu li minni oi li secreti a nullu?”, nel caso in cui la moglie avesse tradito il coniuge anche col pensiero, o si fosse denudata in presenza di un altro uomo.
Dal saggio si evince che i rapporti sessuali tra gli sposi dovevano essere consumati in assoluto silenzio, per salvaguardare i figli dai gemiti e sospiri dei genitori. Per cui “il prete chiedeva ad entrambi i coniugi: Hai usatu sentendulu li toi figlioli?”. E ancora, il dovere coniugale della donna, che avesse rifiutato il marito per dispetto, le imponeva di rispondere alla domanda: “Haichi negatu lu debitu per farili displachiri?”. Piuttosto, il prete sondava l’adempimento dei doveri del marito, chiedendogli esplicitamente “si chi denegasti darchi lu debitu”. E anche lui, non meno della moglie, doveva rivelare se avesse commesso adulterio anche solo col pensiero. Infine, “nella piena consapevolezza che la repressione sessuale risultava per molti uomini eccessiva e insopportabile, alla fine della confessione, il prete arrivava a chiedere anche: Si avisti in hodiu a Deu perchì proibixi la luxuria”.
Daniela Frisone
Aggiungi un commento