Il siracusano è pigro, sciroccato per tradizione. Spesso il suo atteggiamento “lamentusu” lo porta ad essere poco entusiasta rispetto a situazioni innovative, che il più delle volte vengono additate e in qualche modo rimarcate con un “ca fari”. Tale senso demotivante notoriamente si manifesta anche nel semplice spostarsi a piedi da una punta all’altra dell’isolotto o nel prendere l’auto per raggiungere la vicinissima Catania. Di fatto l’apatia è il suo miglior compagno di giochi. Mai compiuti, ovvio. Ma giusto per generalizzare un po’ e per rendere il nostro piccolo viaggio culturalmente più avvincente rispolveriamo l’apatia quale motivo strisciante in quasi tutta la Sicilia, ritrovandola in uno dei romanzi più significativi ambientati all’epoca dei Fasci. “Il marchio degli arabi era rimasto indelebile negli animi e nei costumi della gente. Accidia taciturna, diffidenza ombrosa e gelosia… L’accidia, tanto di far bene quanto di far male, era radicata nella più profonda confidenza della sorte, nel concetto che nulla potesse avvenire, che vano sarebbe stato ogni sforzo per scuotere l’abbandono desolato, in cui giacevano non soltanto gli animi, ma anche tutte le cose”.
Così parlava Lugi Pirandello, nel romanzo I vecchi e i giovani, di una Sicilia del 1893, dilaniata dal contrasto tra due generazioni, quella che aveva realizzato l’Unità e sentiva il disperdersi degli ideali risorgimentali, e quella più giovane, che nel conservatorismo dei padri riconosceva solo la difesa di interessi reazionari. In particolare lo scrittore parlava degli abitanti di Agrigento: “sempre d’un passo, cascanti dalla noja, con l’automatismo dei dementi… l’Akragas dei greci, l’Agrigentum dei romani, eran finiti nella Kerkent dei Musulmani”.
Non c’è dubbio, la sua era metafora storica che però denunciava il disincanto dell’Isola intera, assediata da un’aristocrazia ormai in decadenza e da una nascente e spregiudicata borghesia, quando in basso, nell’ultimo gradino della scala sociale, sedeva il popolo dei lavoratori, ridotti in condizioni di estrema miseria.
Pirandello puntava chiaramente alla reazione e, anche se il senso del romanzo gravitava intorno a un fatto storico, sottolineava il senso di stanchezza, di senilità interiore, quel “desiderio di immobilità” dei siciliani, di cui avrebbe parlato Tomasi di Lampedusa ne Il Gattopardo. Ancora oggi sembra piuttosto facile riconoscersi, rispecchiarsi in quell’accidia messa in luce da Pirandello. Quel senso di torpore che il drammaturgo agrigentino spiega storicamente con le continue sciagure provocate da scorribande e occupazioni straniere; l’assurda sensazione di panico di fronte alle infinite lotte per il predominio di una terra bella e schiava; e poi l’impossibilità alla ribellione, che va quasi a braccetto con una condizione climatica lanciata allo sfinimento.
Pirandello lo sapeva bene. Sapeva di quel caldo assillante che spinge i siciliani a “voler essere ombre. O inetti, o sfiduciati o servili”. Così: “La colpa è un po’ del sole. Il sole ci addormenta finanche le parole in bocca!”.
E qui l’autore de Il Gattopardo conclude: “Il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali”.
Daniela Frisone
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