La chiamano Graziella, lo storico quartiere dei pescatori tra il Porto Piccolo e una fetta di lungomare di Levante a Siracusa. Lo chiamano così per via di un’antica devozione alla Madonna delle Grazie, per cui una nota edicola votiva splendeva tra i ronchi e i cortili, e le famiglie spartivano giorni di grazia, appunto e giorni di sacrifici e dolori. Lì nel vecchio rione un giorno sorse il Carcere Borbonico, la cosiddetta “Casa cu n’occhiu”: fu per volere dell’ingegnere Luigi Spagna che venne scolpito un occhio sull’arco d’ingresso dell’edificio, un simbolo che poteva significare lo sguardo della legge sui cittadini o un’unica vista dei detenuti verso il mondo esterno.
Eppure il cuore della comunità dei pescatori siracusani era la cantina di Pilluccio. Un luogo che pulsa nei ricordi di chi lo frequentò alla fine degli anni Quaranta. Se il tempo non era favorevole alla pesca, i marinai andavano alla taverna di Sebastiano Favara, detto Pilluccio, un nomignolo tramandato dal padre Giuseppe. Tavoli e sedie di legno, vino buono, odore di polipo bollito, questa era l’atmosfera che si respirava nell’osteria al numero 31 di via delle Grazie.
Una piccola ricostruzione storica, la nostra, che riesuma l’oste del tempo pronto ad annotare le consumazioni dei marinai di ogni barcone, così ché i padroni delle imbarcazioni potevano ricambiare il favore mettendo da parte i primi soldi del pescato per pagare i conti alla taverna. Quella era sempre una buona occasione per festeggiare tra bicchieri di vino, uova sode, legumi e ‘ntuppateddi.
Alla cantina da Pilluccio si parlava delle compravendite delle barche, degli ingaggi dei pescatori, si giocava a carte e si inventavano rime, come quelle del pescatore Angelo Romeo, tramandate di bocca in bocca sulla famosa osteria: “Ca dintra, semu dintra a cantina ri Pillucciu, ca la chiamanu tunnara a coppu mottu. Pi fari piaciri a tutti l’amici ni vivemu sta miscella ‘nta cannata”.
Il locale della Graziella per anni fu il punto di ritrovo anche per gli artigiani, i manovali e per gente nobile come il conte Gargallo, che in una delle sue visite alla cantina fece dono di un antico remo al proprietario. Nei primi anni Settanta la cantina di Pilluccio divenne un luogo alla moda per giovani intellettuali e artisti del tempo, pensate che i famosi separè servivano ad assicurare la privacy tra le varie comitive. Così, insieme alle chiacchierate dei pescatori sui fatti del quartiere, accompagnate dai brindisi coi bicchieri pieni di “miscella” (cioè il vino unito alla gazzosa), si potevano ascoltare le conversazioni dei pittori di Ortigia, ad esempio del Capodieci sui colori dell’ultima tela da approntare, mischiate al chiacchiericcio degli studenti di allora. Si avvertivano già i primi sintomi di una svolta generazionale. La pesca cominciava ad appartenere al passato, al tempo dei jeans a zampa d’elefante e delle camicie fiorate, il mondo dei pescatori diventata folclore. Di fatto fu poco prima della chiusura definitiva che l’osteria di Pilluccio divenne un passaggio dovuto per i portatori del simulacro di San Sebastiano che sostavano davanti all’edicola della Madonna della Grazie.
Daniela Frisone
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