21 Ottobre 2024

Giuseppe Pitrè e la Sicilia raccontata nelle fiabe

“C’era una volta” è il modo in cui comincia di solito una fiaba. Quella che stiamo per raccontarvi è tra le più insolite, antiche e significative messe in circolazione nel Sud Italia. È riscontrabile tra le Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani di Giuseppe Pitrèma la sua diffusione sembra essere più ampia perché ritroviamo sue tracce in Abruzzo, in Campania e anche in Puglia. E pare che il cuore della vicenda sia giunto anche nel nord Europa e in Africa. Dopo tutto il Pitrè, che fu medico e folclorista di grande valore, riuscì a compiere uno straordinario lavoro di raccolta di detti, storie originarie, usanze e modi di vivere della Sicilia, non trascurando mai di condividere il proprio impegno con colleghi internazionali.



La fiaba riporta titoli diversi ma nel territorio intorno agli Iblei e anche nel messinese compare come Li tri pinnid’aceddu pavuni oppure d’aceddu cucù. Un re aveva contratto una brutta malattia agli occhi, era praticamente diventato cieco. Il medico di palazzo riferì che la cura c’era e consisteva nello strofinare gli occhi con tre penne di uccello pavone (o cucù in altra versione). Il sovrano aveva tre figli maschi (alcune volte compare anche una figlia femmina), ai quali chiese di cercare le tre penne decretando che chi fosse riuscito nell’impresa lo avrebbe succeduto al comando del regno. In alcuni racconti chi andò alla ricerca delle penne del pavone furono solo i primi due fratelli, in altri partirono tutti e tre. Ad ogni modo fu sempre il più piccolo, il terzo, a trovare le penne e a finire ucciso per mano del più grande e gettato in un pozzo. 

Quando il maggiore e il mezzano tornarono dal padre, gli diedero, è vero, la possibilità di guarire ma gli consegnarono anche un grande dolore perché raccontarono di aver perso il fratello più piccolo, che con buone probabilità sarebbe stato ucciso da un lupo o in altro accidente. La scena si sposta a diverso tempo dopo, quando un pecoraio, passando col suo gregge dal pozzo, attinse all’acqua e si accorse di un osso da cui decise di ricavare un piccolo flauto, un fischialetto. Una volta soffiatoci dentro, lo strumento emise il triste canto di chi fu assassinato. In adattamenti differenti, la voce del fratello ucciso giunse fino al re che ordinò il bando del figlio maggiore e in alcuni casi anche la sua morte, per via di quelle strazianti parole: “Sonami sonami o pastuderru, chiù mi soni chi amaru mi sentu, mi lassaru all’acqua e o’ ventu, pi tri pinni d’aceddu pavuni, lu mezzanu nun ha culpa, fu lu ranni e va a la furca”. La fiaba sembra aver attinto dal mito greco di Argo dai cento occhi, sparsi da Era sulle piume del pavone. Animale consacrato alla dea madre con l’aggiunta del tre, il numero perfetto e ricorrente nella fiaba. Si possono infine anche rivedere le scene bibliche dell’uccisione di Abele o della vendita di Giuseppe da parte dei fratelli, a testimonianza del ricco patrimonio simbolico-culturale della nostra terra. 

Daniela Frisone

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