Francesco Cataldo, catanese di origine. Il suo straordinario sound lo porta ad essere definito dalla nota rivista inglese Jazzwise “musicista di eccezionale sensibilità, compositore prolifico fortemente influenzato dalla cultura Mediterranea”. Lo abbiamo incontrato per un’intervista.
Come nasce la tua passione per la musica?
Ho cominciato a studiare pianoforte da piccolo, poi a interessarmi al rock in piena adolescenza. Il jazz è arrivato tardi, a ventitre anni. Cominciai con la chitarra jazz e fu come iniziare tutto da capo. Erano gli anni Novanta e in quel momento rimasi folgorato dal monumentale Kind of Blue di Miles Davis. Disco poetico, arioso. Quello fu un passaggio importante per me, avevo bisogno di capire come si improvvisava e lo feci piano piano, in modo autonomo, senza legarmi a nessun autore in particolare.
Come ti definisci allora, un musicista jazz?
Il jazz è una scusa per imparare a improvvisare, in realtà è da diversi anni che mi sono distaccato, sono tornato alla canzone, ai Beatles, alla purezza del grande cantautorato, a un musicista come Sting. Oggi mi sento semplicemente un cantautore, cioè un compositore senza parole. Nel mio album Spaces, registrato nel 2012 ai Sear Sound Studios di New York, insieme Scott Colley, David Binney, Salvatore Bonafede, Clarence Penn ed Erik Friedlander, lo stile è improntato alla semplicità, alla riduzione degli ascolti, alla volontà primaria. In fondo l’obiettivo da quel lavoro in poi è che la performance diventi una confessione pubblica, una narrazione.
Quali sono i tuoi legami con le tradizioni, la tua terra d’origine?
Io adoro le mie origini ma non sono legato alle tradizioni siciliane. In Vito raccontami, brano contenuto nell’album Spaces, ricordo mio nonno, quindi quello che mi affascina è la vita delle generazioni passate, le abitudini, le radici, la famiglia. Quando andai a New York, lì ho avvertito la sicilianità, lì ho sentito quanto ero legato alla Sicilia, una terra che dona lentezza, esaltazione dei sensi, splendide dinamiche da grande tribù.
Quanto è difficile e importante essere un musicista in una provincia come Siracusa?
Creare qui è semplice, la bellezza ce l’hai ogni giorno a portata di mano, c’è Ortigia, il sole, il mare. Tutto cambia se si parla in termini di realizzazione di dischi e di concerti. Succede quindi che il musicista prende ispirazione qui ma dopo esporta. È anche vero poi che noi siciliani viviamo in una situazione di comfort, siamo distratti, assonnati, forse non vogliamo vedere ciò che ci circonda, e magari ci interessiamo poco a ciò che di bello viene prodotto.
Di cosa parlano le tue musiche, a cosa ti ispiri?
Parlano di me, sono racconti dei miei affetti. Molti brani sono dedicati alle persone che amo, a mio padre, a mia moglie, ai miei amici. Scrivo su input emozionale, non lavoro mai a tavolino.
E arriviamo al tuo ultimo album del 2020, Giulia. A cosa si ispira?
Giulia è il nome di mia figlia, quindi il riferimento affettivo è evidente. In particolare però nasce dopo aver letto la poetica del fanciullino di Pascoli. È stata una riscoperta, ho compreso che cosa significa per un artista vedere con gli occhi del bambino, scrivere in modo semplice ma mai banale. Chi ascolta Giulia riesce poi a canticchiarne le musiche perché sono essenziali, ovviamente sostenute da un grande lavoro compositivo.
Progetti futuri?
Da Giulia in poi, l’intenzione è quella di sgonfiare l’ego, di ridimensionare l’io. Il lavoro su me stesso, dal periodo del Covid, è stato importante, come la meditazione, la lettura di un autore come Eckhart Tolle, l’apertura alla spiritualità. È su questa scia che sto lavorando ad Amaranto, un’opera per piano solo che comprende una decina di brani con un unico tema, l’amore universale. Qui l’ispirazione nasce dal ricordare una figura a me molto cara, Giuseppe Agosta, il fondatore della Comunità San Martino di Tours, un uomo di grande fede che in vita ha sempre aiutato gli ultimi.
Se dovessi dare un nome al tuo viaggio?
Beh, sarebbe un viaggio infinito, dallo stare solo e ritrovarmi allo stare con gli altri per confessarmi. Forse riprendendo quello che ha scritto Pupi Avati sui miei brani, che “sono una carezza infinita destinata a perdurare per un lungo viaggio”, direi che forse il mio è un viaggio chiamato carezza.
Daniela Frisone
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