Nacque intorno al 1056 a Siracusa (qualcuno indica Noto), fu la voce poetica più interessante della Sicilia araba a cavallo tra l’XI e il XII secolo. Ibn Hamdis, figura affascinante che apre a spazi di riflessione contemporanea.
Di lui resta un preziosissimo diwan, un canzoniere scoperto nel fondo di un vecchio armadio dell’Università La Sapienza di Roma nel 1993 dall’allora studentessa – oggi giornalista e saggista – la siciliana Stefania Carnemolla in una splendida traduzione dell’orientalista Celestino Schiapparelli. In realtà, nell’Ottocento era stato Michele Amari, storico e arabista siciliano, ad occuparsi di Hamdis, e in punto di morte, nel 1889, a pregare l’allievo Schiapparelli di terminare la traduzione dei suoi 6.089 bellissimi versi. Di Ibn Hamdissappiamo che emigrò alla corte di Siviglia prima del 1078 a causa dell’incursione normanna, non prima di aver combattuto coraggiosamente e lasciato con rimpianto la sua casa. Ecco il ricordo appassionato di quel luogo:
Custodisca Iddio una casa di Noto, e fluiscano su di leile rigonfie nuvole!
Con nostalgia filiale anelo alla patria, verso cui mi attirano le dimore delle belle sue donne.
E chi ha lasciato l’anima a vestigio di una dimora, a quella brama col corpo fare ritorno…
Viva quella terra popolata e colta, vivano anche in lei le tracce e le rovine!
Io anelo alla mia terra nella cui polvere si sono consumate le membra e le ossa dei miei avi.
Sono i versi più sinceri, quelli dell’esilio alla corte del sovrano e poeta al-Muʻtamid, dove restò fino al 1091 per poi emigrare verso l’Algeria e la Tunisia. Già maturo, il suo cuore sperava nella riconquista araba della Sicilia cantando la vittoria musulmana sulla sfortunata spedizione di Ruggero II nel 1123 a Capo Dimas.Morì probabilmente a Maiorca nel 1133.
A quel tempo il tema dell’esilio, per chi viveva il dramma della guerra, era molto diffuso, eppure nessuno riuscì a raccontarlo in modo così sensibile e incisivo quanto fece Ibn Hamdis. Il poeta parlò degli amici perduti, della sofferenza indicibile dell’anima lontana dai suoi affetti, del sentimento di delusione verso se stesso per non aver potuto o saputo riconquistare la sua terra amata.
Leonardo Sciascia lo ricordò in Sicilia e sicilitudine del 1969, e in tempi più recenti Andrea Camilleri e Franco Battiato furono ammaliati dalla saggezza della sua scrittura così lontana eppure così vicina ai nostri giorni.
Daniela Frisone
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