Era il 1929 l’anno di pubblicazione di Una stanza tutta per sé. Virginia Woolf rivendicava il diritto della donna alla creatività, alla scrittura, in un mondo dominato da una mentalità maschilista. Per secoli l’assenza della donna nella storia, nella società, come individuo capace di dettare immagini, parole, idee, frequenzeemotive, è stata scandalosa. Il suo ruolo è sempre stato relegato alle arti domestiche, all’accudimento della prole, a quella femminilità accondiscendente ai desideri maschili. Ecco perché chi prendeva la penna in mano per comporre sonetti e portava la gonnella doveva essere nobile, avere soldi e quindi “una stanza tutta per sé”. Chi ne ebbe una, e certamente più di una, fu Anna Maria Arduino, figlia del Principe di Palici e moglie dei Principe di Piombino di Roma.
Nacque nel 1672 a Messina, fu “nobilDonna per virtù insigne e celebre pur pei suoi talenti poetici” – disse di lei Giuseppe Emanuele Ortolani, dedicandole qualche pagina nella Biografia degli uomini illustri della Sicilia. La sua scheda spicca tra le innumerevoli riservate al genio maschile ed è interessante leggere in che modo viene raccontata la storia di una donna-artista. Fin da piccola mostrò straordinari talenti: la musica, il disegno, il ballo, furono da lei coltivati con successo. All’età di sedici anni, applicandosi allo studio delle belle lettere, compose alcune strofe che il suo precettore trovò belle e ben scritte e la incoraggiò a recitarle in pubblico. Immaginate il silenzio attorno aquei versi, il salotto pieno di uomini ingessati e donne ingioiellate, i volti dei familiari amorevolmente sintonizzati con la bellezza artistica, oltre che fisica, con cui la giovinetta riusciva a immortalare il suo talento.
Eppure l’Ortolani racconta della grande insoddisfazione che Anna Maria provava: a quanto pare la poetessa sentiva chiara la differenza tra le sue poesie e quelle del suo (come di tanti altri) modello, il Petrarca, e ne rimaneva dispiaciuta. Scrisse dunque una lettera a un celebre erudito del tempo, che l’aveva lodata per un sonetto che la giovane aveva dedicato alla sua Accademia. Nella missiva l’Arduino disse apertamente che non meritava “tante esagerate lodi, ma piuttosto biasmi” perché si rendeva conto di essere molto distante da quei“buoni Autori” che lei avrebbe voluto imitare. La giovane continuò a studiare appassionandosi anche alla lingua latina, a Virgilio in particolare, anche quando, avendo sposato nel 1797 il Principe di Piombino, Giovanni Battista Ludovisi, dovette abbandonare Messina per trasferirsi a Roma.
Nella Capitale gli Accademici dell’Arcadia la accolsero con entusiasmo attribuendole il nome di Gentile Faresia, autrice di componimenti in italiano e in latino degni del Parnaso. Entrare a far parte di un circolo letterario di quella levatura costituito da uomini colti non era cosa facile, ma l’Arduino era “assai bella e vezzosa” e soprattutto sapeva poetare alla maniera degli Arcadi. Giovanni Mario Crescimbeni, fondatore dell’Arcadia insieme con Gian Vincenzo Gravina, la apprezzò molto, le dedicò un magnifico sonetto e fece menzione dell’illustre poetessa nell’Istoria della volgar poesia del 1698. Da lì a poco Anna Maria Arduino, a soli ventotto anni, sarebbe morta a Napoli (29 dicembre 1700), dopo aver subito il lutto del marito e del figlioletto Niccolò. Fu sepolta nella Chiesa di San Diego all’Ospedaletto dove sono presenti, a firma dello scultore Giacomo Colombo su disegno di Francesco Solimena, due bassorilievi marmorei dedicati alla magnificapoetessa e al suo bambino.
Daniela Frisone
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