A piazza Adda c’erano i paninari. Montgomery, timberland e zainetto. Erano gli anni Ottanta e a volte succedeva che qualche parola di quel credo milanese giungesse tra gli alberi dietro Corso Gelone. “Sei fuori come un balcone o… come un citofono” faceva ridere da noi, e magari si recitavano in dialetto. Altri termini, come sfitinzia e squinzia, erano ignorati o rifiutati. Servivano solo a decifrare i giornaletti che ti sapevano vestire “giusto”.
Il Cioè per esempio, ma ve lo ricordate? Che raccontava di ragazze in crisi d’amore, con il problema del bacio alla francese o della spallina che si smontava ogni volta che facevi educazione fisica. E pensare che da un’altra parte, su un quotidiano a cinque stelle, Lina Sotis spiegava chi era la miss anni Ottanta: “La categoria femminile più diffusa del momento. Hanno tutte un imprinting, quello televisivo degli show della seconda serata, vestiti, toni di voce, lunghezze, cortezze e tacco a spillo: nella squinzia tutto, tranne il cervello, è esagerato. La squinzia è quella che vorrebbe beccare di più e becca di meno, è l’eterna tacchinata e mai presa”.
Invece la musica viaggiava: il pop era lo specchio del posto in cui bisognava trovarsi, tra il pub e la discoteca.
Anche a Siracusa erano sorti i primi locali in cui gli occhioni di Madonna “cuccavano”, lei che era la leader indiscussa, la movida personificata. Il suo stile romantic punk faceva impazzire tutte. Era un’esagerazione controllata, morbida, calda, sensuale, e a Cindy Lauper manco la guardavi. Allora, se avevi più di tredici anni, portavi il tulle svaporato in testa, le croci appese ai lobi e al collo – sempre se i tuoi non erano troppo cattolici – le magliettine traforate, gli scaldamuscoli dai colori shockanti. Il trend della Ciccone sapeva di appartenenza, anche perché quel suo “And you can dance, for ispiration” che apriva il singolo Into the groove, era un inno all’individualità, alla libertà dei sensi. E forse anche a un pizzico di aggressività che le “ottantottine” prendevano un po’ troppo sul serio.
Le vetture turbo, i capelli gellati, la bigiotteria spropositata, e poi i bikini sgambatissimi, i rossetti marcati, griffe ovunque e comunque. La Siracusa giovane respirava a pieni polmoni un senso di benessere, di spensieratezza. Ancora prima che arrivassero i cellulari, i cd, i dvd, prima ancora della techno, dell’house e di tutto quello che oggi i quindicenni di allora non avrebbero mai immaginato di dover vivere come bambini alle prime armi. Tu con la felpa della domenica e la giacca di jeans col colletto di pelle. Facevi il paninaro ma eri pur sempre un ragazzo di provincia, pronto a tremare davanti a un citofono o appeso al filo di un telefono, con lo sguardo gonfio di lacrime mentre ruggivi con il tuo sì o il tuo bravo, e non era per il vento quel pianto, era per lei che non sapevi se e quando l’avresti rivista. Vivevi un senso di sospensione, di attesa, un vuoto incolmabile ma unico, vero. Forse l’ultimo benedetto palpito di romanticismo prima di un’era che avrebbe stravolto ogni senso di incontro.
Daniela Frisone
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