22 Settembre 2024

Antonio Bruno, scrittore e poeta futurista anticipatore di una nuova civiltà letteraria a Catania

Tempo fa ci occupammo di «Pickwick», il quindicinale catanese che “lasciava dormire in pace Mario Rapisardi e rinunziava a occuparsi dell’annoso problema meridionale”. Sappiamo che i suoi redattori, Antonio Bruno, Giovanni Centorbi, Mauro Ittar e Giacomo D’Artemi, si nutrivano di letteratura d’oltralpe, di Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, ed erano innamorati del cenacolo fiorentino Giubbe Rosse e di «Lacerba», la rivista di Soffici e Papini. «Pickwick» fu una bella vetrina letteraria ma, come tante altre, ebbe vita breve. Contò solo cinque numeri, dal marzo al maggio del 1915, e nel suo rapido viaggio editoriale accolse i Balocchi, frammenti di viaggi, pagine di diario, pose artistiche di Antonio Bruno. Una creatura insolita quella del biancavillese poliglotta, del dandy scrittore. Era il più aristocratico, il più maudit di tutti. Colto, pieno di ingegno e letture, Antonuzzo (così lo chiamavano i compaesani) portava un binocolo di tartaruga, indossava abiti magnifici, creati su misura. Aveva il piglio da intellettuale gobbo e insoddisfatto della piccola realtà etnea, un fare malinconico e irridente, e forse si vantava troppo dei suoi viaggi tra Francia e Inghilterra.

Antonio Bruno

«Dall’eremitaggio di Biancavilla – ricordò Centorbi – dove la tristezza del solitario si consolava nell’affetto e nell’autorità di suo padre, agiato proprietario di agrumeti e sindaco del paese, Bruno portava in città un corredo di esperienze e d’interessi che anticipava una civiltà letteraria ancora lontana dalla cultura dei Catanesi di allora». Bruno scrisse, dunque, e non poteva fare altrimenti.

Scrisse More di Macchia (Roma,1913), Come amò e non fu riamato G. Leopardi (Roma, 1913), e dopo si diede a giochi di carta, a trastulli letterari, ai Balocchi appunto, apparsi su tutti e cinque numeri di «Pickwick». Con quest’opera strizzava l’occhio al Giornale di bordo, la rubrica che Ardengo Soffici firmava su «Lacerba» con lo pseudonimo di Arlecchino; così Bruno, per il suo diario, si volle mascherare da Pierrot. Sono pagine straordinarie, paragonabili ai Journaux intimes di Baudelaire, ai Fragments d’un journal intime di Amiel, a Les Complaintes di Laforgue.

Pagine che parlano di vagabondaggi, di andate e ritorni di un’anima in perenne lotta con l’ambiente circostante: «Io voglio guardarmi intorno con adeguati propositi virili, e graffiarmi questa cipria che mi sbianca il viso come un contrassegno visibile dei chiari di luna che ho sempre prediletto: avvelenandomi per amore, o uscendo dal Moulin Rouge in piazza Blanche, orgiastica, nella notte violata da palpitanti insegne luminose. Questo passaggio – purtroppo è idillico. Né l’Etna che mi sta sempre di fronte, strapiombante dal cielo, può, a causa della sua candida camicia di neve, dare risonanze ferine ai miei “a solo” di pavone prigioniero che trascura il suo manto regale». E ancora, i segni della solitudine: «E pure questa mia terra dal nome gaio, coll’oscurità delle sue origini e il suo umile presente potrebbe guarirmi. Borghesi e campagnuoli intenti a vangare la terra prosternati all’altare del dio centesimo: chiese senza are, case senza stile, aristocratici e matrone da teatro dei piccoli. Ma mi consolo chiamandolo “il natio borgo selvaggio” e mi ostino a pensare al Duca di Reichstadt di Rostand, quando ogni giorno m’accorgo d’esser qui tanto lontano da tutti che nessuno, non dico m’indovina, ma mi sospetta».

Poi l’accidia, l’abbandono, la caduta per gli amori che non hanno ritorno; e naturalmente la scrittura, Fuochi di Bengala (Firenze, 1917), Un poeta di provincia (Milano, 1920), 50 lettere d’amore alla signorina Dolly Ferretti (Catania, 1928). Infine l’ultimo viaggio, il suicidio, nel 1932 in una modesta camera d’albergo. A Catania, all’età di quarant’anni.

Daniela Frisone

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