È una biografia scritta dal giornalista Gabriello Montemagno, quella dedicata alla figura di Giulia Trigona, al suo tragico destino. Nota dama di corte della regina Elena, nacque a Palermo nel 1877. All’età di diciotto anni divenne sposa del conte Romualdo Trigona di Sant’Elia, dal quale ebbe due figlie e un rapporto coniugale complicato.
A quanto pare la contessa Giulia pativa una lunga malattia e il marito si consolava con un’attrice della compagnia di Scarpetta. Il conte Trigona viene ricordato come uomo di grande tempra politica, tant’è che nel 1909 divenne sindaco di Palermo. Nello stesso anno Giulia conosce a casa dei Florio il barone Vincenzo Paternò del Cugno, tenente di cavalleria, bello, audace e pieno di debiti. Tra i due scoppia una passione travolgente che li porta a intraprendere dei viaggi e a palesare pubblicamente il loro amore.
Montemagno ricorda in che modo lo definì Tomasi di Lampedusa, e cioè un “farfallone attratto dalla vivida luce della lanterna dei Florio”. È verosimile immaginare che Paternò chiedesse spesso somme di danaro a Giulia, “cosa che – spiega il giornalista calatino – nel processo che lo vide imputato di omicidio, gli valse l’accusa di sfruttatore”. La gelosia fu però il principale movente del naufragare del loro rapporto nonché del giallo che vide la povera contessa vittima dell’amante assassino. Di fatto i coniugi Trigona giunsero a separarsi legalmente e proprio nel 1911 si presentarono al Quirinale convocati dalla regina Elena, per servizio e magari per tentare una riconciliazione.
Ebbene, il due marzo di quell’anno Giulia e il Paternò si incontrano in un hotel vicino alla stazione Termini. La stanza non è delle migliori ma il loro molto probabilmente è un addio, si concedono vicendevolmente per l’ultima volta, Giulia è sfinita dall’ossessione del conte e reca con sé il centinaio di lettere da lui inviatole che vengono rinvenute dalla polizia sulla scena del delitto. Lui portava con sé un coltello da caccia, oggetto oggi esposto al Museo criminale di Roma, con cui sferrò colpi alle spalle e successivamente alla gola di Giulia, tentando subito dopo di suicidarsi con una pistola. Il barone sopravvisse nonostante la grave ferita alla tempia sinistra e nel 1912 sarà condannato all’ergastolo dalla corte d’assise di Roma.
Lasciato il carcere a sessantadue anni, fu graziato dal re dietro richiesta di Mussolini, ritornò a Palermo e sposò la sua collaboratrice domestica. La storia della contessa palermitana colpì nel profondo l’opinione pubblica tanto che ne parlarono i giornali di tutta Europa. Di fatto la vicenda, come scrive Montemagno, “non era soltanto una storia di amore e di morte. Il caso Paternò-Trigona era anche una metafora del clima di quell’Italia, con i suoi protagonisti viscontianamente simboli di ceti al tramonto e di classi in ascesa, privilegi che nascono e privilegi che muoiono”. La storia di Giulia inoltre scosse, con sessant’anni di anticipo, il pensiero degli italiani sulla questione del divorzio e nel tempo a venire riecheggiò nella fantasia di giallisti e registi di straordinaria creatività.
Daniela Frisone
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