Il senso della fine accompagna la bellezza. Accade nella vita come nell’arte. Pensiamo alla mela bacata di un famoso quadro di Caravaggio, quel punto nero che ammonisce, avverte di un ineluttabile cambiamento. Pensiamo pure a un’opera straordinaria come Il Gattopardo. Il principe di Salina andava a caccia di eternità tra il cielo stellato o lo scodinzolio del suo amato Bendicò mentre la morte lo corteggiava ad ogni istante. Dunque viviamo con un pensiero mesto a fianco e certi luoghi, seppur magici, nascondono conflitto, perdita, dolore. E così, chi la osserva vede un magnifico antro con pietre bianche e boschetto sottostante, un luogo suggestivo, forse tra i più belli di Siracusa.
La Latomia dei Cappuccini, splendida e triste nel volto di chi, qualche decennio fa la sceglieva come ultimo approdo della sua esistenza. Ma facciamo un passo indietro.
Già dal VI secolo a. C. la cava veniva utilizzata per le costruzioni cittadine, la sua fama però è legata a una nota guerra. Siamo nel 413 a. C., e la vittoria dei siracusani contro gli ateniesi inflisse ai superstiti sconfitti una lenta agonia nel fondo della Latomia. Piuttosto, alla fine del 1500 quel luogo fu integrato all’attiguo convento di frati, da cui prese definitivamente il nome, Latomia dei Cappuccini appunto.
Due secoli dopo Patrick Brydone, noto viaggiatore scozzese, avrebbe scritto: “Il fondo dell’immensa cava, da cui fu probabilmente tratta la pietra per costruire quasi tutta Siracusa, è ora ricoperto da un terriccio fertilissimo, e siccome è un luogo assolutamente riparato dal vento, è pieno di ogni sorta di arboscelli e bellissimi alberi da frutto, rigogliosi e imponenti, mai intristiti dalla tempesta. Aranci, limoni, bergamotti, melograni, fichi, eccetera, sono tutti di notevoli dimensioni e di qualità sopraffina. Alcuni di questi alberi, in particolare gli olivi, sorgono dalla viva roccia, senza traccia di terra, ed offrono uno spettacolo insolito e assai gradito all’occhio”.
A seguire, molti viaggiatori dell’Ottocento, scrittori e amanti della Sicilia riconobbero la bellezza della cava. Il duca di Serradifalco ne magnificò le fattezze: “La forma singolare delle sue rupi, alcune scavate in profonde caverne, altre sorgenti in masse isolate e leggiere combinate con alberi di limoni, di aranci, e con ogni maniera di arboscelli e di piante verdeggianti di floridissima vegetazione; il convento dei frati che pende dall’alto della rupe; il cielo ridentissimo della nostra bella Sicilia, e dirò pure l’aspetto di quei monaci, che per l’abito penitente e le lunghe barbe ispirano quiete e raccoglimento, formano una scena che ti colpisce il pensiero”.
Oggi il fascino della Latomia fa da cornice a suggestivi eventi culturali, eppure al cuore attento giunge ancora l’eco antica delle morti lente consumate al tempo della guerra del Peloponneso, dei salti nel vuoto di chi era devastato dalla fine di un amore. Erano gli anni Settanta o giù di lì e lo chiamavano Sibbia quello strapiombo meraviglioso.
Daniela Frisone
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