
In siciliano le parole sono ricche di significato, sono immagini, specchi di vita vissuta. I termini sono tanti, ne passeremo in rassegna solo qualcuno, giusto per cogliere quelle macchie di colore che ravvivano un lessico straordinario.
Prima di tutto bisogna accennare al fatto che per un siciliano doc qualsiasi parola è sempre accompagnata da gestualità o mimica facciale. Per esempio se vuole dire no, utilizzerà l’espressione ‘nzu (che deriva da “non sì”) muovendo il mento dal basso verso l’alto con lo sguardo tra il bieco e il sospettoso.
Potrebbe ancora portarsi la mano alla fronte nel momento in cui esclama bedda matri per dichiarare tutto il suo stupore e quasi la sua impossibilità a intervenire in una faccenda che reca sfumature preoccupanti a tratti spaventose. Invece di fronte alle seccature, alle noie, ai fastidi della vita di tutti i giorni, l’isolano verace usa i vocaboli cammurrìa (insieme all’aggettivo camurriusu/a) e camula nelle estrinsecazioni ordinarie ma altisonanti: “che camurrìa!” e “si ‘na camula!”.

Il primo pare deriverebbe, secondo quanto riporta il Nuovo dizionario siciliano-italiano del 1876 di Vincenzo Mortillaro, dal termine gonorrea, ma potrebbe benissimo tradurre dal toscano la voce camòrro, che significa malanno. Qualche altra fonte invece lo accosta alla parola campana camorra, probabilmente perché ricalca l’invadenza della criminalità organizzata e la sua quotidiana oppressione sul popolo.
Piuttosto, il termine camula è italiano e definisce un insetto parassita simile al tarlo e alla tarma. Ancora, la parola mizzica rimane forse tra le più usate, dato che ne sostituisce un’altra famosissima molto spesso utilizzata nei momenti di sorpresa, di stizza o di rabbia. Procedendo verso il tragicomico, che poi è l’aggettivo che meglio sintetizza l’animo siciliano, non ci resta che rispolverare una fantastica espressione la cui ripetizione può quasi sembrare un’onomatopea, e cioè chinnicchienacchi. Una voce frizzante, di certo utilizzata dal siciliano più attempato, che viene adoperata in circostanze di sospetto e confusione, quando chi ci parla è proprio fuori argomento e quindi vorremmo rispondergli “che c’entra?” Che poi era quello che i latini si trovavano a ripetere in situazioni simili biascicando impunemente un “quis hic in hac”.
Daniela Frisone
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