25 Novembre 2024

Matrimonio alla siciliana, storia di amore, “sensali” e fuitine

Parliamo di amori di altri tempi, nati sotto l’occhio attento dei sensali, lo sguardo indiscreto dei genitori. Nell’era in cui l’espressione “reggere la candela” non significava intimidire un tête-à-tête con fare da terzo incomodo. Era la Sicilia di settant’anni fa, nel classico dopo cena tra fidanzati trascorso in compagnia di mamma papà e parenti. La coppia appena sbocciata non viveva una storia d’amore come la si intende oggi. I due, zito e zita, si volevano bene, si rispettavano, ma soprattutto rispettavano le regole della tradizione. Niente passione nei loro gesti, nei loro sguardi solo chiacchiere e sorrisi e un matrimonio dietro l’angolo. Pensate, dopo il caffè e i dolcetti, la ragazza accompagnava il suo promesso sposo sull’uscio di casa, ma non erano da soli: c’era la mamma a vegliare sulla “dignità” del loro comportamento. E lì entravano almeno un paio di secondi di privacy.

Poco prima del saluto della buona notte, la madre da “custode” si trasformava in “sensale”: soffiava sulla candela, che fino a quel momento aveva tenuto accesa, per permettere ai due piccioncini di scambiarsi una tenerezza, nella migliore delle ipotesi un bacetto a stampo. In quel caso la seduzione poteva avere una sua ragione d’essere. Era l’iter del corteggiamento all’antica, dove il rapporto uomo-donna si fondava sull’inequivocabile principio di formare un nucleo familiare. Le ragazze da marito dovevano essere “brave ragazze”, fondamentalmente illibate, pronte a badare a una casa, alla prole, a uno sposo da accudire in tutto e per tutto.

In provincia specialmente, si sapeva che tizia era nell’età giusta per accasarsi, e tizio, se interessato, poteva presentarsi dal padre a chiederne la mano. Tra i due probabilmente ci poteva essere anche un rapporto di parentela non troppo lontano, che avrebbe assicurato la serietà e la riuscita della loro futura unione. Magari erano cresciuti nella stessa parrocchia, avevano frequentato la stessa scuola, giocato nel medesimo cortile, riso e pianto per le identiche sbucciature di ginocchia. Succedeva però che quando lei si faceva “signorina”, il loro rapporto prendeva una piega perentoria. Quando una ragazza compiva tredici anni, la madre le diceva che ormai era grande, non poteva più comportarsi come una bambina, non doveva dare confidenza ai maschi per strada, neanche a quelli con cui aveva trascorso l’infanzia. Perciò, se fino a quel momento era andata a scuola con un cugino, da quel momento in poi avrebbe cominciato a vederlo in modo diverso, si sarebbero allontanati, lei con le sue amiche, lui coi suoi amici, e poi un giorno lei avrebbe capito che gli piaceva perché quando lui la incontrava le sorrideva e soprattutto la fissava con un certo sguardo.

Lo sguardo, il veicolo seduttivo più importante di una volta. In fondo c’era solo quello, non erano ammessi molti altri contatti, forse qualche parola che arrivava con la raccomandazione di una persona di fiducia, che poteva essere la sorella di lui che si recava dall’ipotetica futura fidanzata per farle sapere: “tu gli piaci”. Poi se l’interesse era corrisposto, si coinvolgevano le famiglie. Morale della favola: la seduzione finiva ancora prima del corteggiamento.

Daniela Frisone

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