Un sorprendente articolo, pubblicato nel maggio del 1919 sul settimanale «Il Tango» di Siracusa, pregustava l’idea di un “telefono tascabile”: siamo in tempi non sospetti, quando ancora l’apparecchio era attaccato a un muro ed erano le centraliniste a gestire le linee telefoniche. Un audace giornalista spiegava con fare ironico che attraverso il sistema telefonico senza fili l’intera umanità si sarebbe liberata dal “martirio di dover ricorrere a gabinetti particolari o a cabine per ottenere la comunicazione”.
Si trattava dell’ipotesi americana di un apparecchio che scavalcava le “poco gentili” sensali delle conversazioni e poteva essere portato comodamente in tasca. Parliamo di un secolo fa, quando la vita era cadenzata da ritmi lenti e piacevoli, ci si affacciava al pensiero della macchina in generale come a qualcosa di insolito, irreale, sentimentalmente distante. Nessuna necessità, nessuna forma di dipendenza. Il telefono tascabile era un’immagine, l’idea della comodità senza scomodare il proprio mondo, scavalcando anni di cabine telefoniche, gettoni e schede introvabili, metri e metri di fili in casa per proteggere quel po’ di privacy tra genitori, figli e fratelli.
Ecco che cosa sarebbe stato quello strano aggeggio, il sogno di un uomo all’avanguardia dentro la sua quotidianità: “Un campanello tascabile, un fischietto collocato in una parte sensibile del corpo, daranno l’allarme e svilupperanno la corrente necessaria; un microfono microscopico salirà automaticamente all’orecchio, un ricevitore sbucherà dal taschino del panciotto e la comunicazione sarà bella e stabilita, dalla casa dell’utente a quel qualsiasi posto in cui egli si troverà, per avvertire che il pranzo è pronto, che il bambino ha i dolori di ventre, che la suocera brontola, o che la cambiale è scaduta o il commissario non si è fatto vivo”. Non ci voleva molto a intuire che quello straordinario arnese avrebbe tolto un po’ di libertà a chi lo portava con sé, un po’di quella pace che oggi abbiamo del tutto perso nonostante qualche compagnia telefonica tenti di rimediare con un “please don’t call”.
Nel 1919 quell’invenzione doveva essere messa a bada, il giornalista quindi consigliava di “fare orecchio da mercante con quei soliti scocciatori, adducendo per giustificazione la scucitura della fodera della tasca trasmettitrice o ricevitrice; il distacco di un bottone o la rottura della bretella addetta alla manovra del commutatore; tutti guai naturalmente irreparabili, poiché di filo non si potrà fare uso senza guastare l’apparecchio”. In ultimo, sempre in tono beffardo, ne esponeva il più grande dei vantaggi: “la felicità di fare a meno delle signorine telefoniste, giacché si avrà in tasca l’occorrente, mentre ora, in tasca si hanno quasi sempre le signorine sullodate!”
Daniela Frisone
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