24 Novembre 2024

Tra arte e tradizione, l’altra faccia del Natale siciliano

L’altra faccia del Natale, quella più antica, forse la più vera, rievoca costumi lontani dal nostro esistere. L’idea del solstizio d’inverno, esaltazione simbolica della luce che sovviene alla tenebra, della vita che avanza dopo la morte, nei secoli fu assimilata alla figura del Cristo, alla sua venuta nel mondo. Eppure, come affermava l’antropologo Antonino Buttitta in Arte e tradizione in Sicilia (Palermo, 1985), la nascita in quanto tale è un momento di crisi, segna il passaggio da un ciclo a un altro con la possibilità dello scatenarsi del caos. Forse è per questo che la tradizione, tramandata dal Pitrè, voleva che durante le grandi novene non si potesse comandare agli spiriti maligni e che solo durante la notte di Natale fosse possibile trasmettere certe formule di scongiuro, preparare filtri magici e disincantare i tesori nascosti. Ecco qua che le pratiche usuali del giorno della Natività si mischiano all’aspetto per così dire profano.

Pensiamo allo scambio dei doni, diffuso in molti luoghi, non solo in Sicilia. Il Buttitta, a tal proposito, sottolineava: «Il significato di questa pratica è chiarito dall’uso dei contadini rigorosamente osservato fino a quando nell’Isola ha resistito una certa struttura della proprietà agraria, di portare doni in natura ai loro padroni».

E ancora: «La pratica del dono, soprattutto in un contesto festivo, è connessa anche a una ideologia fortemente legata a motivi magico-religiosi. In ultima analisi, il dono istituisce o ribadisce una relazione tra soggetti o gruppi». Pensiamo, ancora, al Natale come festa pagana legata alla rinascita del sole, festa che la cristianità ha cercato fin dalle origini di adombrare collocando la nascita di Gesù Cristo nello stesso giorno, il 25 dicembre. Ad esempio il vischio, di fatto usato durante le festività come simbolo di auspicio e buon augurio, non fa altro che rimarcare il senso mondano del Natale, il residuo atavico di certe feste non cristiane.

Antonino Uccello, esperto siracusano di tradizioni popolari, riconobbe in alcune ricette natalizie tipiche di Palazzolo Acreide il sentore profano dell’usanza paesana. In una cronaca inedita del secolo scorso, un padre cappuccino palazzolese registrava per Natale «l’uso del pane bislungo spaccato nelle due estremità detto volgarmente cucciaredda», diminutivo di cùccia. Secondo il Pitrè, la cùccia o cùcchia è formata da due mezzi pani attaccati fra loro; pare che il termine derivi da copula, alludendo quindi al rapporto sessuale. «La sua fortuna – secondo il Buttitta – è certamente dovuta al fatto che la cùcchia è un cibo rituale presumibilmente simile alla “puls” presso i Romani, ed è desumibile, dato anche il suo carattere cerimoniale e l’evidente simbologia fallica, la sua connessione coi riti di propiziazione per la fertilità e la buona annata».

In conclusione: «Dall’espressione delle donne di Buccheri che hanno eseguito la cùcchia, dalle salaci allusioni, emerge chiaramente la coscienza, in chi lo esegue, che questo pane ancora rappresenta e significa, così come in origine, l’accoppiamento dei due sessi». Non dimentichiamo che il termine “cucchi” in molte parti della Sicilia significa gemelli, e che “’ncucchiarisi” allude all’accoppiamento tra uomo e donna. Il significato della riproduzione come fonte di vita e sconfitta della morte è riconducibile all’ostentazione del cibo durante le festività natalizie; così i giochi legati all’affermazione del denaro ne auspicherebbero l’abbondanza.

Daniela Frisone

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