Negli anni Cinquanta il Carnevale a Siracusa era molto sentito e per certi versi anche rispettato. Carmelo Tuccitto (nel ritratto a destra), uno dei maggiori studiosi di tradizioni popolari, sottolineò l’importanza del Carnevale aretuseo: «Anche a Siracusa abbiamo avuto un festival, si trattava di una manifestazione all’aperto, la Fiera del Festival di Carnevale che il popolo chiamava ‘u festivallu». Questo sfaterebbe la cattiva fama della città, da sempre considerata una provincia poco avvezza alla tradizione carnascialesca. Pensate, dal giovedì al martedì grasso di settant’anni fa, Siracusa festeggiava a Piazza delle Poste.
Lì c’erano i cosiddetti casotti, una sorta di negozietti che esponevano merce di ogni tipo: pentole, attrezzi da cucina, articoli per la scuola, tutti in palio, dunque non in vendita, per i vincitori dei giochi di società del tempo. Fra i più accreditati c’era il Sutta Novanta, una specie di lotteria dei poveri. In pratica, chi estraeva tre numeri la cui somma non superasse il 90, vinceva il premio. È probabile che una gara del genere, in un momento storico piuttosto difficile, risultasse gradito sia alle famiglie bisognose che agli studenti in cerca di fortuna.
Questa era l’atmosfera semplice e carica di umanità che accoglieva con grande gioia la maschera più importante del Carnevale siracusano, la più tipica, u’ dutturi Pampinedda. Chi a quel tempo portava i calzoni corti oggi ricorda benissimo il clima goliardico che si creava attorno a tale personaggio. Fu sempre Tuccitto a rievocare come, fino a tutti gli anni Cinquanta, fosse Carmelo Gallitto a impersonare u’ dutturi Pampinedda. La sua era una farsa spassosa, coinvolgente. Era il teatro a portata di mano, di sicuro una forma di creatività popolare, una specie di commedia dell’arte sui generis o in miniatura. Di fatto questa maschera avrebbe potuto recitare accanto a un Arlecchino, a un Brighella o a una Colombina.
Ce ne accorgiamo dai dettagli con cui lo studioso Tuccitto riuscì a dipingerla: «Era solito farsi spazio tra la gente al grido “Largu ca passa ‘a scienza” e, dopo avere sottoposto ad esilarante visita medica i notabili della città, che via via incontrava lungo il percorso dei carri allegorici, prescriveva loro su fogli di carta igienica cure a base di “acitu muriaticu” e “lavanni di issu” (clisteri di gesso) che suscitavano fragorose risate tra gli astanti». È facile riconoscere un filo rosso che lega la maschera aretusea ad altre simili che animavano gli antichi carnevali in Sicilia. La settimana prima della Quaresima la gente sentiva il bisogno di sfogare le proprie insoddisfazioni nei confronti dei privilegi dei pochi. Ecco perché u’dutturi Pampinedda era molto amato dalla gentuzza di Ortigia e della Borgata: era la voce ridanciana che ostentava coraggio e ironia.
Daniela Frisone
(foto Archivio Antonio Randazzo)
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