22 Settembre 2024

Vitti ‘na crozza, un racconto diventato canto grazie a Pietro Germi

Lo dicevamo la scorsa volta. Le canzoni siciliane, anche quando parlano d’amore, si avvicinano alla tristezza, allo sconforto e in molti casi al senso della morte. Il canto che vi presentiamo è tra i più famosi della tradizione isolana. Vitti ‘na crozza, che pare assomigliare a un motivo funebre, di fatto affronta la fine della vita, la vecchiaia, le ragioni dell’esistenza.

L’autore del testo è sconosciuto ma la musica venne composta dal maestro agrigentino Franco Li Causi su commissione del regista Pietro Germi, che nel 1950 si era recato in Sicilia per girare il film Il cammino della speranza. In pratica era successo che Germi aveva ascoltato le parole di una poesia popolare da un minatore di Favara che recitavano così: Vitti ‘na crozza supra nu cannuni / fui curiosu e ci vosi spiari / idda m’arrispunniu cu gran duluri / moriri senza ‘n toccu di campani. La storia di un uomo a cui un teschio racconta la sua dipartita dal mondo, privo delle onoranze che gli spettavano, aveva colpito l’immaginario del regista genovese tanto da chiedere al Li Causi di musicarla, senza poi peraltro consegnare il suo nome né alla locandina né ai titoli di testa e di coda del film.

La canzone comunque prese il volo, e venne conosciuta anche grazie all’incisione che ne fece il maestro agrigentino su esecuzione del tenore Michelangelo Verso. Da lì in poi molte celebri voci vollero interpretarla. Famosa rimase la versione di Domenico Modugno, e piuttosto sentita quella di Rosa Balistreri. Di fatto la cantastorie licatese tolse quel “tirollalleru” tanto poco intonato che, pare negli anni Sessanta, qualcuno aveva inserito per dare al canto un tono folkloristico.

Ma tornando al testo, nel tempo qualcosa di anomalo è rimasto. Quel termine “cannuni” in effetti andrebbe visto come “cantuni”, cioè la pietra che spesso si trovava negli angoli delle case antiche e che serviva da protezione nel passaggio delle carrozze. Questa spiegazione però sembra poco credibile. Perché un uomo anziano (lo dice dopo nel testo, che è arrivato all’età di ottanta anni), presumibilmente intorno all’Ottocento, secolo a cui attribuire la paternità del canto, avrebbe visto un teschio su quella pietra angolare posta in una via della sua città?

In realtà l’attribuzione più esatta dovrebbe essere quella che dà al “cantuni” il significato di concio di tufo, per estensione il luogo di lavoro dei minatori. E lo fa proprio con quel dialetto della Sicilia occidentale di cui era fornito il minatore dei Favara che aveva recitato la strofa al Germi. È quindi del tutto probabile che quelle morti che tanto bianche non erano, né allora né oggi, spinsero l’ignoto autore a raccontare di un incontro in miniera, là dove si era consumata la fine di chi lavorava senza assistenza, senza riconoscimenti, e ha visto la fine della sua vita senza ‘n toccu di campani.

Daniela Frisone

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